13th Annual Lotman Conference at Tallinn University, “Fear in Culture and Culture of Fear” (15–17 June 2023)
Questo saggio non vuole essere un viaggio attraverso la paura nella stora dell’arte moderna. La ricerca richiederebbe uno spazio molto maggiore. Ci limitiamo a prendere in considerazione le opere di quattro artisti: Francisco Goya (i dipinti della Quinta del Sordo), Arnold Böcklin (le cinque versioni deL’isola dei morti), Edvard Much (Disperazione) e Francis Bacon. Alcune opere di questi artisti si prestano partcolarmente bene a una disamina dell’argomento. Le emozioni legate alla paura hanno attraversato con particolare intensità le arti a cavallo fra Otto e Novecento, investendo intere correnti artistiche. Abbiamo scelto di focalizzare il punto di vista soltanto su opere singolari, di artisti altrettanto singolari. Crediamo inoltre che le opere legate a quest’emozione si inseriscano in un percorso storicamente molto più ampio, legato alla Malinconia.
Le opere considerate sembrano ubbidire al richiamo dell’isolamento, l’isola di Bocklin, la Quinta del Sordo di Goya, l’individuo isolato di Munch, la camera d’albergo scena di un suicidio di Bacon. La scelta non sembra casuale, paura, lutto e malinconia attraversano uno spazio non traducibile in termini di socialità. Si soffre da soli.
Le radici primitive della paura
Nel 1872 Charles Darwin fu il primo che mise in evidenza le radici primitive della paura. Riteneva ed oggi è confermato che fosse la più ancestrale e fondamentale delle emozioni umane. Infatti è comune anche alla maggioranza degli animali della Terra e ne garantisce la sopravvivenza. La paura è un dispositivo essenziale per sottrarsi ai pericoli e sfuggire provvisoriamente alla morte; ma protratta all’infinito e nell’indefinito diventa una minaccia per l’equilibrio psichico individuale e collettivo. Come controllarla? Jean Delumeau nel suo libro fornisce una risposta: Frammentandola; fabbricando paure particolari; oggettivando l’angoscia. Passando da un sentimento viscerale ingovernabile a un nemico dotato di volto e nome. I detentori del potere della civiltà europea stesero così l’inventario dei mali che Satana era capace di provocare e la lista dei suoi agenti: musulmani, ebrei, eretici, donne, e soprattutto streghe, maghi, uomini neri. Fu tranquillizzante pensare la peste come un flagello mandato da Dio per punire l’umanità peccatrice. Fu la soluzione al trauma collettivo.
Un discorso diverso andrebbe fatto in relazione alla paura come istanza interiore, non socializzabile, la cui rappresentazione non può essere trasferita all’Altro da sé. In questo caso questa emozione sfiora la costellazione delle ansie e dei terrori interiori, legata alla sofferenza psichica, al dolore e alla morte. In questo contesto parleremo della paura e dell’angoscia come sentimento che transita da una dimensione personale a una sfera estetica, coinvolgendo il campo delle arti e in particolare quelle visive.
La paura come “segno”nella storia dell’arte
Per poter inquadrare l’argomento della paura come “segno” considereremo quattro punti di vista: la paura come timore in Böcklin, la paura come terrore in Goya, la paura come ansia in Munch, la pura come lutto e malinconia in Bacon.
La paura come timore: le cinque versioni dell’ Isola dei morti di Böcklin
Con il termine timore indichiamo di solito uno stato d’animo sospettoso o ansioso di chi considera la possibilità che si possa verificare un evento dannoso, doloroso o comunque spiacevole. Più precisamente è quella fredda inquietudine che si prova durante l’approssimarsi di una minaccia contro cui si può fare molto poco. Il timore è un termine che deriva dall’ambito religioso dove la divinità manifesta la sua presenza ma non rivela la sua natura nascosta. Il timore si nutre per qualcosa di trascendente ma quando è interiorizzato concorre a formare la coscienza morale di un individuo il che fa sì che ciò argini le sue spinte trasgressive. Di Arnold Böcklin prenderemo in considerazione le cinque versioni de L’isola dei morti”. In questi dipinti notiamo subito la scelta cromatica di subordinare il disegno al colore, con toni fortemente contrastati e accesi. La tecnica accentua la luminosità delle tinte pure.
Prima versione
Ribattezzato “L’isola dei morti”, il quadro inizialmente aveva un nome meno sinistro, sebbene l’atmosfera fosse comunque abbastanza inquietante, ovvero “Un posto tranquillo”.

Nel quadro sono predominanti i colori scuri. È presumibilmente notte o comunque sera, vi è un’oscurità parziale, resa ancora di più dai tocchi di colore e luce che spiccano ai lati dell’isola. Il nostro sguardo è catturato dalle sagome degli alberi, che appaiono nere come la pece e che si stagliano maestose al centro del dipinto, guidando il nostro sguardo verso la barca che si avvicina placidamente all’isola.
Sulla barca vediamo un uomo intento a remare, mentre una figura completamente bianca sta in piedi e fissa l’isola. Il simbolismo pare abbastanza chiaro: chi rema è Caronte, colui che traghetta le anime attraverso il fiume Stige, dunque la figura in bianco è presumibilmente un’anima. Tale figura ricorda vagamente la morte nell’opera “La morte e il taglialegna” di Jean Francois Millet.
Seconda versione
Si differenzia dalla versione originale per pochi dettagli e, soprattutto, per la gamma cromatica che vira sul blu e sul giallo. L’isola appare quasi la stessa, solo più luminosa, gli alberi più nitidi; il cielo non è più grigiastro ma di un blu notte che, invece di rassicurare, è ancora più sinistro e forse era proprio l’intento di Arnold. Anche la barca presenta piccole divergenze con quella della versione precedente, così come la figura dell’uomo ai remi, che appare più slanciata e nitida.

Terza versione
La terza versione de “L’isola dei morti“ è considerata un autentico capolavoro e supera la fama della sua versione originale.

Il cambiamento cromatico è evidente e, agli occhi di chi guarda, il risultato è contrastante. Dovremmo esserne rassicurati: abbiamo finalmente una visione completa dell’ambiente circostante, senza ombre; eppure non è così. Il tutto appare ancora più inquietante, immoto e spettrale.
Non è più notte ma mattina, probabilmente molto presto. Il cielo appare grigio, a tratti vira al color glicine, non vi è traccia di sole. L’isola si staglia davanti a noi, perfettamente visibile in ogni sua sfumatura. Gli alberi sono di un verde cupo, la roccia richiama il colore del cielo, con rada vegetazione intorno. L’acqua la riflette in parte, placida, sebbene verrebbe da dire morta.
La barca, anche in questo caso, si avvicina all’isola con la figura bianca ancora in piedi. Dietro di essa, a remare, non c’è un uomo ma chiaramente una donna, parzialmente in piedi anche lei. Questo dettaglio potrebbe mettere un freno alla teoria secondo cui la barca fosse davvero quella di Caronte.
La quarta versione de “L’isola dei morti”: il quadro perduto
Della quarta versione de “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin, ahimè, ci resta solo una fotografia in bianco e nero. L’opera venne distrutta da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. Non si hanno dunque molte informazioni su questa versione.

La quinta e ultima versione
La quinta e ultima versione del quadro ancora una volta ci appare uguale, eppure completamente differente dalle precedenti. Non è chiaro se sia mattina o meno. Il cielo è grigio, mentre l’isola appare sui toni dei marrone. Gli alberi tornano ad essere lunghe ombre scure che si stagliano al centro, mentre la barca giunge a destinazione. Ancora una volta è presente la figura in bianco che, però, non pare stagliarsi dritta come le volte precedenti. Sembra infatti avere il capo leggermente chino. Paura? Oppure rassegnazione?

Come nelle terza versione, a guidare la barca è una donna o almeno così sembra (in questo caso, infatti, è meno evidente). La differenza sostanziale nel quadro non sono però i colori, ma l’acqua. Non ci appare più immota e “senza vita”, ma in movimento. Piccole onde appaiono sulla sinistra laddove l’acqua si infrange su piccoli scogli. L’isola nel suo complesso appare come un antro buio che accoglie (o ingurgita) chi approda sulla sua costa.
La paura come terrore: La Quinta del Sordo e le “pinturas negras” di Goya

Nel 1819, prima di fuggire in Francia, dove muore, ultraottantenne, nel 1828, Goya si ritira nei dintorni di Madrid in una casa nota come Quinta del Sordo, casa del sordo. I muri di questa sua ultima dimora spagnola sono i celebri supporti per le allucinate pitture a olio conosciute come le pinturas negras, un ciclo dalle tinte e dai temi foschi e oscuri.
Pitture nere (1819-1823) è il nome dato a una serie di quattordici opere murali di Francisco Goya, dipinte con la tecnica dell’olio su muro su pareti ricoperte di gesso. Sono state create come decorazione delle pareti della Quinta del Sordo, una casa da lui acquistata a Madrid nel febbraio del 1819. Questi murali sono stati trasferiti su tela nel 1874, e attualmente sono conservati nel Museo del Prado di Madrid.
Da recenti radiografie sembra che i dipinti si disponessero su più strati e che su quelli più antichi trovassero posto composizioni solari e ariose, poi coperte nella disillusione amara degli anni precedenti l’esilio da croste nere di pece illuminate solo da un ocra terroso di cera.
Tra scene di sabba, stregoneria e deliri compaiono alcune delle figurazioni più note del pittore: Saturno divora i suoi figli, Il grande caprone, Le Parche, Pellegrinaggio a Sant’Isidro (1820-1824, Prado).
Nella libertà svincolata da qualsivoglia commissione, nella destinazione privata di questi dipinti, è possibile rintracciare le componenti di un’arte intima e istintiva, quasi una scrittura automatica che si affida al fluire del pensiero per emergere sulla parete, tra le paure e i fantasmi della mente del pittore. E se è vero che l’arte contemporanea è soprattutto lo specchio del sentire intimo dell’artista e del suo mondo interiore, queste opere ne rappresentano il reale punto di inizio.

Saturno che divora i suoi figli (Saturno devorando a su hijo) è un olio su intonaco trasportato su tela (146×83 cm), dipinto da Goya nel 1821-1823 e conservato al museo del Prado di Madrid.
L’opera rappresenta una scena raccapricciante e terrificante: Saturno divora uno dei suoi figli appena nati. Saturno è rappresentato con le fauci spalancate, gli occhi che paiono uscire dalle orbite, le mani che lambiscono il corpo sembrano delle morse dalla forza disumana – un atto di violenza che prende lo stomaco. La drammaticità della scena è amplificata dallo sfondo nero e dalle pennellate forti e intense. L’opera fa parte del ciclo Pitture Nere che comprende quattordici dipinti realizzati da Goya – dipinti inquietanti e capolavori assoluti.
La storia: Crono (qui rappresentato come Saturno), figlio di Urano era il più giovane dei Titani. La profezia a lui legata narra che uno dei suoi figli lo avrebbe destituito dai suoi poteri e per questo motivo il grande Titano iniziò a divorarli uno ad uno. Sua moglie Rea riuscì a salvare solo uno dei suoi figli: Zeus, il sestogenito, che mise in salvo nell’isola di Creta. Zeus, una volta diventato adulto affrontò e sconfisse il padre, costringendolo a restituire i figli mangiati – diventando il Re degli Dei.
Il Fregio della vita di Edvard Munch: vita, amore, paura, morte, malinconia e ansia
Nel dicembre 1893 Berlino fu teatro di un’altra mostra di Munch: all’Unter den Linden, infatti, vennero esposte sei opere, facenti parte di una serie detta Studio per una serie evocativa chiamata Amore. Fu così che ebbe inizio Il Fregio della vita, dove l’impeto visionario di Munch esplora i temi di vita, amore, paura, morte, malinconia e ansia.
Il ciclo venne esposto interamente nel 1902, in occasione della quinta edizione del Berliner Secession, suddiviso in quattro tappe definite dallo stesso Munch:
Munch cambiò numerose volte il titolo del ciclo che esprimeva la sua visione della vita a cominciare da Studio per una serie evocativa chiamata Amore, scelto per l’esposizione di Berlino del 1893 (si descrive, infatti, la mutazione dell’amore dalla prima fase piena di speranza alla sua penosa fine) a Fregio: motivi della via di un anima moderna, per l’esposizione del 1904 a Kristiania, l’odierna Oslo, fino al più semplice Fregio della vita per Kristiania 1918.
Quattro pareti portavano i nomi delle quattro tappe della serie:
1/ Seme dell’amore (con i dipinti: Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi, Danza sulla spiaggia, Il bacio, Madonna)

2/ Sviluppo e dissoluzione dell’amore (con i dipinti Ceneri, Vampiro, La danza della vita, Gelosia, La donna, Malinconia)

3/ Angoscia (con i dipinti Angoscia, Sera sul viale Karl Johan, Edera rossa, Golgota, L’urlo)

4/ Morte (con i dipinti Il letto di morte, Morte nella stanza della malata, Odore di morte, Metabolismo. La vita e la morte, La madre morta e la bambina)

Lutto e malinconia di Freud
Il tema della melanconia tra Otto e Novecento non poteva non incontrare sulla sua strada la psicoanalisi nascente, che le conferisce nuovi significati. In psicoanalisi la malinconia assume il significato di lutto, principalmente quando questo riguarda un oggetto investito narcisisticamente, cioè quando riguarda un investimento pulsionale su un oggetto che può essere ricondotto a caratteristiche o attributi propri della persona.
Scrive Freud nel saggio Trauer und Melancholie (Lutto e malinconia), scritto nel 1915 e pubblicato nel 1917: “Dopo che ci siamo avvalsi del sogno come normale prototipo dei disturbi psichici narcisistici [als Normalvorbild der narzißtischen Seelenstörungen], vogliamo tentare [wollen wir den Versuch machen] di chiarire l’essenza [Wesen] della melanconia confrontandola con il normale affetto del lutto. Questa volta però dobbiamo fare un’ammissione preliminare che ci ponga al riparo dal rischio di esagerare il valore delle nostre conclusioni. La melanconia, la cui determinazione concettuale [Begriffbestimmung] risulta oscillante perfino nella psichiatria descrittiva, si presenta in forme cliniche differenti, la cui riunione in vista dell’unità non appare certa [deren Zusammenfassung zur Einheit nicht gesichert scheint]; inoltre, alcune di queste forme fanno pensare più ad affezioni di tipo somatico che psicogeno. Il nostro materiale, a prescindere dalle impressioni cui ogni osservatore può accedere liberamente, si limita a un piccolo numero di casi la cui natura psicogena non poteva esser messa in dubbio. Lasceremo quindi cadere fin dall’inizio ogni pretesa [Anspruch] di universale validità per le nostre conclusioni, e ci consoleremo col pensiero che, dati gli strumenti di indagine di cui disponiamo attualmente, assai difficilmente potremmo scoprire qualcosa che non sia tipico, se non di un’intera classe, almeno di un piccolo gruppo di disturbi.” [Freud 1915].
Per cui nella perdita della melanconia è l’Io a sentirsi svuotato e non la realtà esterna, come avviene nel lutto. La parte dell’Io identificata con l’oggetto perduto va incontro a scissione e s’instaura una dinamica interna che genera collera per questa perdita che il Super-Io non accetta e si sfoga attaccando l’Io. Questo determina le autoaccuse tipiche della melanconia.
“Il conflitto all’interno dell’Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all’oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato [Freud 1915].
La paura come lutto e malinconia: il Trittico in memoria di un suicidio di Francis Bacon

Francis Bacon (1909-1992) è annoverabile tra gli artisti del XX° secolo che più realisticamente hanno espresso in pittura la tragedia dell’esistenza. “Bacon ha perseguito con coerenza una ricerca isolata che, pur incentrandosi sulla figura, in particolare la figura umana, non cede mai alla narrazione, esprimendo – attraverso un’imagerie di grande immediatezza – disperazione, paura, sofferenza, ma anche l’intrinseca forza vitale dell’uomo (Andresen 2000)”.Il trittico dedicato alla memoria del compagno di Bacon è una rappresentazione postuma del momento in cui l’artista scoprì il tragico epilogo del giovane amante George Dyer.
Nel 1971 Bacon stava per inaugurare la sua retrospettiva personale al Grand Palais di Parigi, un evento che nel mondo dell’arte può essere paragonato all’assegnazione del Premio Nobel. La sera precedente all’evento, Dyer fu trovato morto suicida nella vasca da bagno della loro camera d’hotel. Fu la conclusione di una relazione morbosa e molto tormentata: l’artista di Dublino rappresentò ossessivamente il volto deformato del suo amante, un carattere impetuoso, depresso, alcolizzato e facile alle escandescenze.
Nelle lingue neolatine come l’italiano si distingue l’angoscia dall’ansia, ma in molte altre lingue come l’inglese tale differenza non c’è ed i due termini sono assimilati insieme, “anxiety”. Spesso l’ansia sfocia in esiti angosciosi, fino a veri e propri esiti psicotici.
La figura nelle opere di Bacon si dissolve e nello stesso tempo si dilata. “Distorsione, frammentazione, isolamento dell’immagine sono i mezzi pittorici che, in un nesso complesso di associazioni e operando su varie fonti (poesia, fotografia, dipinti di grandi maestri, da Velázquez a Rembrandt), creano presenze angosciose, spettrali, corpi dilaniati che traggono forza dal colore, spezzato in gamme dissonanti o spatolato, manipolato, contrapposto alle modulate campiture dello sfondo. Le sue opere, spesso proposte in trittico, si sono progressivamente orientate verso una radicalizzazione formale e cromatica e hanno trovato in un formato standard (198×148 cm) la dimensione ideale (Andresen 2000)”.
La disperazione e l’angoscia dei corpi mostruosamente contorti di Bacon deriva dal confronto con la potenza distruttrice di una realtà spietata, un mondo devastato dalla guerra, dalla fame, dai massacri, sul quale egli riflette, raffigurando tragicamente la sconfitta di ogni progetto […]. E’ un mondo di individui straziati, quasi dei mutanti, creature infernali senza via d’uscita e senza speranza, prigionieri disumanizzati nei quali anche l’anima sembra sia stata annullata dall’atrocità della sofferenza.
Conclusione sub specie semiotica
Per nominare la i quattro artisti presi in considerazione hanno sentito il bisogno di isolare le pitture in cicli pittorici (Goya, Munch) o serializzando una matrice originale (Bocklin) o espandendole in un trittico (Bacon). Anche questo è un segno, sia pure esteriore, di un’impossibilità manifesta di concentrare la paura in un punto, in una scena localizzata. La paura si espande fino a caratterizzare l’interno di interi appartamenti o lungo le pareti di una mostra.
Bibliografia
(Andresen 2000)
Andresen, A., “Bacon, Francis”, in Enciclopedia Italiana – VI Appendice (2000)
(Delumeau)
Delumeau; J., La paura in occidente. Storia della paura nell’età moderna, Il Saggiatore
(Di Stefano 1998)
Di Stefano, E., (1998), Munch, Giunti Editore, Firenze 1998.
(Bonnefoy 2006)
Bonnefoy, Y., Goya, le pitture nere, Roma, Donzelli 2006.
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(Freud 1980 (1915)
Sigmund Freud, Lutto e melanconia (in Metapsicologia), Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Caducità, in Opere, 1915-1917, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976.
Glueck, G., (1998), “Anguished Existential Cries That Rattle Sacred Icons”, New York Times, Art Review, December 18, 1998. http://www.nytimes.com/1998/12/18/arts/art-review-anguished-existential-cries-that-rattle-sacred-icons.html
Littell, J., (2014), “Trittico. Tre studi da Francis Bacon”, Torino, Einaudi.
Oliva, A. B., (2005), “Forme di dolore insite nella vita stessa: il mondo stesso è il Giudizio Universale”, in: “Munch 1863-1944”, a cura di: A. B. Oliva, O. Storm Bierke, Milano, Skira.
Torselli, V., (2007), “Francis Bacon, Studio dal ritratto di Innocenzo X”. Artonweb, punti di vista sull’arte, consultato il 29/11/2016, su: http://www.artonweb.it/artemoderna/quadri/articolo26.htm
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