La riforma di Goldoni

La riforma di Goldoni

I personaggi-maschere della commedia dell’arte avevano all’origine una precisa corrispondenza nella realtà: il Magnifico, il Dottore, il Capitano e lo Zanni rappresentano le forze che agivano in quella società, ovvero il denaro, la conoscenza, le armi e la forza lavoro.
Tuttavia, nel corso del Seicento questi personaggi avevano sempre più perso il contatto con la società, i loro costumi e le loro maschere apparivano artificiali e la commedia si era ridotta al lazzo e alla battuta volgare. Un esempio evidente è l’evoluzione del costume del più fortunato degli Zanni, Arlecchino: inizialmente un camiciotto rattoppato che nel tempo diventa un ricco costume a losanghe multicolori, tanto elaborato quanto artificiale.

Goldoni esercita il suo ‘mestiere’ sulle tavole del palcoscenico e nelle calli, i libri su cui studia, come lui stesso afferma, sono il “Teatro e il Mondo”. Pertanto un approccio interessante può essere la lettura della Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie, vero e proprio manifesto programmatico della sua attività di drammaturgo.
Fine osservatore del mondo ed esperto conoscitore delle potenzialità comunicative del teatro, egli percepisce l’esigenza del pubblico borghese di veder rappresentati temi, personaggi, sentimenti più vicini alla propria realtà e vita. Comprende anche che né la tragedia o il dramma pastorale, sofisticati ed elitari, né la commedia dell’arte, troppo spesso logora e involgarita, possono soddisfare tale bisogno.
La riforma fu graduale. La prima novità fu una parziale revisione del canovaccio, attraverso l’introduzione dei dialoghi scritti per quei personaggi in cui il pubblico poteva riconoscere figure della realtà quotidiana, ma lasciando lo spazio dell’improvvisazione, dei lazzi, delle acrobazie alle maschere. Poi anche queste vennero riportate alla loro funzione originaria di servi, padroni, soldati: fu imposto loro un copione pur conservando i costumi tradizionali, ben riconoscibili dal pubblico.
L’ultimo atto di questo processo di trasformazione è l’eliminazione definitiva di maschere e costumi quando niente giustificava più il loro uso. Spartiacque di questo processo (databile tra il 1748 e il 1762) è la redazione de Il servitore di due padroni, scritta in forma di canovaccio nel 1745 per Antonio Sacchi, celebre Truffaldino del tempo, e poi rimaneggiata, fino all’edizione del 1753.
Per comprendere quanto Goldoni sia riuscito a salvare e valorizzare gli aspetti ancora vitali di una drammaturgia ormai artificiosa e vuota, può essere indicativo osservare la fortuna di questa commedia in età contemporanea.
Nel 1947 il regista Giorgio Strehler mette in scena il copione di Goldoni e dà vita ad Arlecchino servitore di due padroni (titolo e nome del protagonista vengono cambiati in occasione di una tournée internazionale). Determina così la rinascita di due nuovi Arlecchini, Marcello Moretti e Ferruccio Soleri, di attori cioè che si sono specializzati nel ruolo acrobatico del servitore così come facevano gli attori della commedia dell’arte (Soleri che nel 1963 ha ereditato il ruolo da Moretti, lo interpreta ancora oggi).
L’abolizione del canovaccio e delle maschere, l’introduzione del vincolo del copione sono le novità potremmo dire ‘tecniche’ della riforma.
Un secondo aspetto da prendere in considerazione riguarda aspetti più letterari: gli intrecci, le tematiche, la caratterizzazione dei personaggi e la lingua utilizzata. Da questo punto di vista l’elemento più caratterizzante dell’opera di Goldoni è sicuramente la ricerca di verosimiglianza e di equilibrio, coerenti con il clima razionalistico e la cultura arcadica, e il tentativo di superare il gusto barocco per la stravaganza e l’artificio. Gli intrecci stereotipati e ripetitivi, spesso incoerenti, vengono sostituiti da trame aderenti al vissuto del pubblico. I personaggi acquistano personalità e sono tanto più verosimili quanto più sono unici e sfaccettati. Al plurilinguismo spesso grottesco si sostituisce un monolinguismo fondato sull’uso dell’italiano o di un solo dialetto coerente con l’ambientazione della vicenda.

Quando Goldoni, ormai vecchio e infermo, dettò (in lingua francese) la propria autobiografia nei Mémoires, volle inquadrare l’intera sua esistenza alla luce di un obiettivo fondamentale: la riforma del teatro comico esistente ai suoi tempi, ovvero di quella popolarissima forma di divertimento chiamata «commedia dell’arte» o «commedia delle maschere». «Riforma» significa che Goldoni non inventò nulla, ma mutò, cambiò: aggiornò e migliorò ciò che c’era prima di lui, senza dimenticare né tradire un’esperienza tanto fortunata e diffusa.

Goldoni era critico verso la commedia dell’arte essenzialmente per due aspetti:
•con il tempo, la comicità era divenuta buffoneria, con molti tratti di volgarità;
•l’improvvisazione degli artisti era divenuta un repertorio scontato, convenzionale.
Ciò che è convenzionale non è più «vero», perché la vita cambia continuamente, è sempre diversa e sorprendente. E quando il comico diviene buffoneria, non è più comicità «media», borghese, adatta a quel pubblico veneziano che era il pubblico di Goldoni. Su questi propositi agiva indubbiamente la cultura dell’Illuminismo, che consigliava anche al teatro maggiore ragionevolezza, un’aderenza cioè alla realtà nelle trame, nel linguaggio, nei personaggi, come vedremo meglio parlando della poetica goldoniana.

La riforma goldoniana procedette con prudenza, per tappe graduali. L’autore adottò grande cautela soprattutto con le maschere, tanto gradite al pubblico; soltanto alla fine le vincolò a una parte scritta.
•La riforma si avviò dal Momolo cortesan, una commedia del 1738, nella quale era scritta per intero la parte dell’attore principale; per il resto, sussistevano solo indicazioni generiche, sull’esempio degli scenari della commedia dell’arte.
•A segnare un decisivo passo in avanti fu la prima commedia scritta per intero, ossia La donna di garbo (1742). La trama gravita intorno a Rosaura, un’accorta «donna di garbo», cioè a modo e accorta, che, nonostante le umili origini, riesce a vincere resistenze e pregiudizi e a sposare il giovane amato.
•La maschera della «servetta», tradizionale nella commedia dell’arte, nella Donna di garbo si evolve e diventa il carattere di Rosaura, figura piena di intelligenza e capace di governare le sorti della sua famiglia. In questo modo, anziché rappresentare «tipi» artificiali, Goldoni dava vita a «caratteri» psicologicamente e sociologicamente ben delineati: nasceva in sostanza la «commedia di carattere», in cui venivano a riflettersi le molteplici figure della società contemporanea, con la loro mentalità e condizioni di vita.
Vi furono altre tappe notevoli verso la commedia «riformata»:
•Il servitore di due padroni (1745), in cui la parte della maschera di Arlecchino risulta scritta per intero;
•La vedova scaltra (1748), che abbandonava le maschere concentrando l’attenzione intorno alla figura della protagonista, pur senza mortificare gli altri personaggi.
Qualche ripensamento si riscontra invece nella Famiglia dell’antiquario (1749): qui le vecchie maschere comiche convivono con i nuovi «caratteri» goldoniani.

Soltanto con le sedici commedie nuove scritte per la stagione 1750 del teatro Sant’Angelo di Venezia, diretto dal capocomico (impresario) Medebach, la «riforma» poteva dirsi un processo ormai compiuto. In quel gruppo di sedici testi ne compaiono alcuni di grande valore, come I pettegolezzi delle donne, Il bugiardo e soprattutto La bottega del caffè. In quest’ultima l’autore conferisce grande rilievo all’ambiente veneziano: la scena è posta in un campiello, una delle mille e animatissime piazze della città, intorno ai tavolini di una bottega in cui si gusta la prelibata bevanda esotica; qui prendono vita e s’intrecciano le vicende dei personaggi, che con le loro voci, passioni, vizi e virtù, rappresentano un movimentato concerto di «caratteri» umani.

Goldoni dovette condurre una dura battaglia per imporre la propria riforma. Ad accendere le polemiche fu soprattutto l’idea di Goldoni che in teatro occorresse rappresentare il vero. A schierarsi contro la commedia «riformata» furono alcuni importanti scrittori contemporanei:
•l’abate Pietro Chiari (1711-85), drammaturgo attivo presso il rivale teatro di San Samuele;
•Carlo Gozzi (1720-1806), autore di dieci Fiabe teatrali d’impianto fantastico;
•il severo critico Giuseppe Baretti (1719-89), autore del periodico «La Frusta letteraria».

Lo stesso pubblico dei teatri si divise tra «goldoniani» e «chiaristi». Anche tra gli attori molti avversavano la riforma, credendo che essa limitasse la loro creatività; mentre gli spettatori faticavano, come sempre avviene, ad abbandonare il vecchio gusto per il nuovo.
Qualche dubbio nacque nello stesso Goldoni. Incalzato dalla concorrenza, cedette diverse volte ai gusti degli spettatori più tradizionalisti: tra pentimenti parziali e amarezze, si può intuire perché accettò nel 1762 l’invito a trasferirsi a Parigi, presso la Comédie Italienne.
La vittoria di Goldoni. Tuttavia lo sviluppo successivo del teatro europeo mostrò che Goldoni aveva intuito la giusta via da seguire. Trasformando il comico in un genere serio, vicino alle problematiche umane e psicologiche del teatro tragico, Goldoni finì col prospettare una via nuova, destinata a rivoluzionare i generi teatrali. Comico e tragico cominciarono infatti a sovrapporsi, a fondersi. Dall’Illuminismo egli apprendeva che la natura umana ha le sue manchevolezze e che i difetti altrui sono anche i nostri difetti; perciò i suoi lavori non potevano che oscillare tra dramma e commedia: non c’è mai nulla per cui valga la pena di ridere spensieratamente, o per cui si debba soltanto piangere. Non esiste, se non in termini puramente teorici, soltanto la farsa o soltanto la tragedia; la vita è più complessa, farsa e tragedia vi sono mescolate, così come nell’animo umano convivono bene e male, bello e brutto.
Nascerà su queste basi, nel corso dell’Ottocento, il nuovo genere del «dramma borghese», che assorbirà definitivamente le opposte dimensioni di commedia e tragedia, offrendo al vasto pubblico borghese di tutta Europa:
•personaggi e vicende comuni in cui riconoscersi;
•occasioni di riflessione etica;
•serietà di valori letterari e scenici.

Scrivendo le sue commedie, Goldoni tenne fissi due obiettivi fondamentali:
•verità, che a teatro è verosimiglianza di trame, situazioni, sfondi;
•naturalezza di atteggiamenti, dialoghi, caratteri.
L’autore stesso, nella dedica dei Mémoires, definì la verità «la mia virtù favorita»: l’intero suo teatro è complessivamente una ricerca e una scoperta di verità, quella verità su di noi e sul nostro mondo quotidiano che, piccola o grande che sia, ci accompagna giorno per giorno. Agiva su Goldoni l’insegnamento dell’Illuminismo, che riecheggia, per esempio, nella Prefazione con cui nel 1750 l’autore presentava le proprie opere a stampa: «Questa è la grand’arte del comico poeta, di attaccarsi in tutto alla natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti debbono esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti».
«Natura» o «verità» sono termini pressoché sinonimi: indicano il desiderio di fare teatro non partendo dai libri, dagli autori del passato, dalle regole compositive tradizionali, ma, appunto, dall’osservazione diretta della vita e degli uomini. Goldoni fu uno straordinario osservatore della società settecentesca: la sua commedia sapeva cogliere dal vivo il carattere della gente; sbirciava nelle case per farsi interprete dei vari casi umani che vi avevano luogo.
Precisamente per avvicinarsi alla vita quotidiana e alla sua verità – cioè, per un’esigenza di realismo – Goldoni volle riformare la commedia dell’arte, senza arrendersi fino a quando l’operazione poté dirsi conclusa e accettata dal pubblico. Il suo scopo era renderla più umana e «vera»: l’anima della riforma era la verità della vita. Per questo la commedia riformata chiamava gli attori a disciplinare la propria recitazione e a mettere il loro virtuosismo al servizio della verità della vita quotidiana.

Prima di Goldoni la commedia dell’arte o dell’improvviso si fondava sull’estro degli attori, sulle loro irrealistiche fantasie. Goldoni cambiò registro: il suo teatro appare dominato dalla verosimiglianza e dalla ragionevolezza.
Perciò:
•da un lato, egli circoscrisse le sue vicende in un tempo e luogo ben precisi: siamo a Venezia, spesso nel tempo di carnevale, in un ambiente mercantile e cittadino. Questa divenne la cornice inconfondibile delle commedie goldoniane;
•dall’altro, egli volle restituire alle maschere della commedia dell’arte una precisa identità di personaggi:
un servo ragiona e si muove da servo, il padrone da padrone, il soldato da soldato, e così via: era la base perché nascesse la nuova commedia di carattere goldoniana. In essa, ogni personaggio si comporta in modo non stereotipato: agisce, pensa, decide in base al suo carattere individuale, non agli schemi determinati dalla sua classe sociale.
La prima delle due caratteristiche risalta in commedie come La bottega del caffè (1750) o come Il campiello: commedie d’ambiente, in cui l’autore si proponeva di rappresentare la vivacità e i caratteri tipici di un intero microcosmo sociale e di realizzare una sorta di affresco dei propri tempi.
La seconda caratteristica ispira il personaggio di Mirandolina nella Locandiera (1753). Ella è «l’antitipo» per eccellenza, perché è sì una “servetta”, ma dotata di carattere e di una personalità unica, ben delineata: l’autore la lascia libera di uscire dagli schemi e di compiere atti inediti rispetto ai repertori della tradizione precedente. Per esempio, Mirandolina è proprietaria di una locanda senza la protezione di un marito o di un padre.
Precisamente tale conquista dell’individualità si rivelò uno degli esiti più alti dell’arte di Goldoni, sul piano umano e su quello artistico.

Oltre a ricondurre il comico a una dimensione più naturale e razionale, il teatro goldoniano celebra la virtù borghese del «buon senso», che è capacità di sapersi imporre al capriccio del caso attraverso doti di «garbo», di misura negli affetti, di equilibrio personale.
Sono doti che possono appartenere a chiunque:
•ai mercanti come Pantalone, incarnazione dei valori di buon senso, concretezza e anche generosità che hanno reso grande Venezia nei secoli;
•alle donne, per esempio alla Rosaura della Donna di garbo o alla Mirandolina protagonista della Locandiera;
•persino ai servi: può accadere che siano personaggi come Arlecchino, Brighella, come uno dei tanti Brigida, Paolino, Colombina ecc. a incarnare le solide virtù della Venezia mercantile d’un tempo. Era una delle novità più rivoluzionarie di Goldoni, specie se paragonata ai servi zotici e malvagi degli scenari dell’«arte».
Ma in Goldoni non c’è mai schematismo: perciò, all’opposto, può accadere che:
•in certe commedie i servi rimangano semplici strumenti di comicità;
•in alcune tarde commedie dialettali (I rusteghi, 1760; Sior Todero brontolon, 1762) emerga invece la satira dell’arricchito borghese «aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura e del conversare» com’erano i nobili del passato.
Anche in questa direzione della critica sociale la fisionomia umana più perfetta di Goldoni è quella di Mirandolina. Ella è un tipo concretamente, e orgogliosamente, borghese: è l’incarnazione stessa del principio per il quale le armi della dialettica, della saggezza, della conoscenza non appartengono solo ai ricchi o ai nobili bennati, ma sono, al contrario, il corredo delle persone «sagge» o di «garbo», uomini o donne, servi o borghesi, ricchi o poveri che siano.

Nella commedia goldoniana è ben presente il tema della critica sociale. Siamo infatti nell’età dell’Illuminismo, che assegnava alla letteratura (e al teatro) il compito di fornire occasioni per il miglioramento dei «costumi» della società.
Goldoni fu uno dei più lucidi osservatori dei vizi e delle virtù del Settecento.
Nelle commedie della prima fase, fino alla Locandiera (1753), domina la satira dell’inarrestabile decadenza dell’aristocrazia veneziana. I valori positivi sono incarnati dai nuovi tipi borghesi: come Ridolfo, il saggio caffettiere della Bottega del caffè (1750), o come la locandiera Mirandolina.
Nella seconda fase, successiva al 1753, il drammaturgo sposta il suo bersaglio sulla ricca borghesia dei mercanti e degli affaristi, interessati al denaro, al prestigio sociale, all’apparire. In tal modo questi borghesi vengono ad assomigliare ai nobili di vecchio stampo. Così accade negli Innamorati (1759), commedia che mette in ridicolo la «pazza gelosia» amorosa dei nuovi ricchi, che modellano i propri comportamenti sull’«onore» della nobiltà. Così accade anche nella Trilogia della villeggiatura, tre commedie del 1761 che mettono in ridicolo l’esasperato culto delle apparenze, un difetto prima appannaggio solo dell’aristocrazia.
Nelle commedie della terza e ultima fase (dal 1760-61 circa) è per lo più la gente semplice del popolo a incarnare i valori vitali, positivi: è il mondo umile che affolla le calli (vie) di Venezia a rivelare una genuinità ormai irraggiungibile per il ceto borghese. In alcune grandi commedie «corali» (Il campiello del 1757 e Le baruffe chiozzotte del 1762, Il ventaglio del 1764) il drammaturgo non fa emergere alcun personaggio individuale sugli altri: protagonista diviene la comunità sociale nel suo insieme.

Le commedie di Goldoni rivelano indubbiamente squisite doti letterarie, nell’uso dei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi, nella stessa precisione linguistica. Ma il pregio maggiore della sua drammaturgia sta nel fatto che, nelle sue commedie, la vita sembra travasarsi direttamente sulla scena. Esattamente come Shakespeare, Goldoni non insegue valori letterari «puri»: pone ogni sua risorsa (personaggi, situazioni, linguaggio) al servizio del teatro, cioè dell’azione che «si fa» e s’immedesima sul rettangolo del palcoscenico. Una o due battute gli bastano per sbalzare i personaggi come «caratteri» vivi sulla scena. Perciò non pochi suoi testi alla lettura sembrano noiosi e tirati ma, una volta messi in scena, appaiono invece freschi e agilissimi.
Da questo punto di vista Goldoni imparò moltissimo dalla commedia dell’arte, dai suoi spettacoli fatti di gestualità, caratterizzazione mimica, ritmo. Egli seppe poi trasfondere e rivivere con originalità questa eredità della commedia dell’arte nel nuovo teatro comico da lui riformato.

Il fine di verità a cui obbedisce il teatro goldoniano si traduce ovviamente anche nelle sue scelte di lingua e stile. Già nel 1734, ai tempi del Belisario, la sua prima tragicommedia, Goldoni aveva scritto, non senza orgoglio: «Io faceva parlare l’imperatore ed il capitano come parlano gli uomini, e non col linguaggio degli eroi favolosi, al quale siamo avvezzati dalle penne sublimi de’ valorosi poeti. Volendo io esprimere un sentimento, non ho mai cercato il termine più scelto, più elegante o sublime, ma il più vero e il più esprimente».
Per realizzare questo obiettivo, egli dovette però risolvere un problema: in quale lingua far parlare i personaggi? A noi può sembrare un problema teorico, ma nell’Italia settecentesca, divisa in tanti Stati, era difficilissimo trovare un minimo comun denominatore, anche sul piano linguistico: le varie popolazioni della penisola parlavano ciascuno il proprio dialetto, anche se il ceto medio, più istruito, conosceva «la lingua dei libri», il toscano letterario di Dante, Boccaccio e Petrarca.
Ma quella era appunto la lingua dei libri: artificiale, soltanto scritta, poco adatta a rappresentare le situazioni della vita quotidiana. A ogni modo i personaggi delle commedie letterarie (per esempio quelli delle cinque commedie di Ariosto o dei melodrammi musicati nei teatri dell’opera) parlavano quella lingua libresca che spesso suonava un po’ ridicola, una volta messa in scena.
Esisteva poi un altro tipo di teatro, quello della commedia dell’arte. Esso utilizzava nei suoi dialoghi una lingua parlata ma troppo rozza, agli occhi di Goldoni; una lingua comprensibile sì dal popolo, ma disprezzata dagli intellettuali e soprattutto inadeguata a esprimere compiutamente le sottigliezze psicologiche che la verità interiore dei personaggi comportava.

L’italiano «medio» di Goldoni
Goldoni scelse una via intermedia; a parte le commedie degli anni della maturità, scritte in francese, utilizzò una «lingua di conversazione», come la chiamano gli studiosi, costruita su una base mista di toscano e lombardo. Non si trattava ancora di una lingua parlata, ma certo la novità portata da Goldoni (rifiuto della lingua dei libri, adozione di una lingua, almeno in parte, d’uso) era rivoluzionaria per i suoi tempi, tale da anticipare la rivoluzione linguistica promossa meno di un secolo dopo da Manzoni nei Promessi sposi.
Tra l’altro, con il progredire della sua carriera di scrittore, Goldoni usò la lingua italiana in modo sempre più preciso, soprattutto per distinguere, all’interno della medesima commedia, i personaggi colti, nobili o ricchi, dalle persone semplici. Anche i tanti spostamenti e le varie permanenze in diverse città d’Italia contribuirono ad allargare gli orizzonti linguistici di Goldoni.

Le commedie in veneziano
In molti casi Goldoni scelse per le sue commedie il dialetto veneziano. Questo era il mezzo espressivo più aderente alla realtà, quello con cui si potevano raggiungere nella via più diretta gli intenti di verità e realismo perseguiti dal teatro goldoniano. Con lui il dialetto acquistava, per la prima volta, la dignità e l’autonomia di una lingua parlata, al di fuori di qualsiasi intenzione caricaturale. Goldoni, cioè, utilizzò il veneziano non più come uno strumento comico o di gioco, finalizzato alla presa in giro dei popolani bensì come una lingua seria, esattamente come lo era il suo italiano.
Come quest’ultimo, il veneziano di Goldoni conosce diverse gradazioni, che vanno dal parlare semplice e basso della gente umile, al tono più elevato e «pulito» dei veneziani arricchiti.
D’altra parte Goldoni non usò mai il dialetto in funzione «municipalistica», cioè per rivolgersi soltanto ai veneziani. Egli coltivava infatti l’ambizione di fornire modelli di riforma del teatro comico a tutta Italia e anche all’estero. Perciò volentieri traduceva in lingua italiana le commedie che, in un primo tempo, aveva scritto in dialetto; esse venivano accolte con entusiasmo dal pubblico di tutte le regioni italiane, segno di un mutamento sociale e di esigenze simili.

 

 

Fonte: http://www.treccani.it/scuola/lezioni/lingua_e_letteratura/goldoni.html



Categorie:F06- Teatro del Settecento

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