Claudia Romano- Il teatro plautino: uno specchio riflettente e deformante

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Il teatro plautino: uno specchio riflettente e deformante

Parlare di Plauto significa parlare dell’autore che più e meglio di ogni altro rappresenta per la storia della letteratura l’incarnazione stessa della commedia arcaica latina, fin quasi ad identificarsi totalmente con essa. Egli è di sicuro il commediografo più importante di Roma e colui che maggiormente ha influito sulla storia del teatro occidentale; nei suoi testi, straordinariamente originali dal punto di vista linguistico, la vivacità dell’azione, infatti, la brillantezza dei dialoghi e delle battute, arricchiti dall’autore da parti liriche, da “arie”, cioè, cantate dai personaggi, in raffinatissimi metri, si esprime tutta la sua maestria. Plauto utilizza, invero, copioni greci provenienti dalla Commedia nuova, ma in tutto sa imprimere il segno della sua inconfondibile personalità: il poeta che “traduce” dal greco è senza dubbio uno degli scrittori più originali della letteratura romana.

La cronologia delle commedie plautine è incerta, l’autenticità della maggior parte di quelle che all’epoca circolavano sotto il suo nome, numerosissime, lo è altrettanto (ricordiamo che noi facciamo riferimento solo al canone varroniano, che ne individua come di certa attribuzione allo scrittore di Sarsina soltanto 21; altre 19, le cosiddette “pseudovarroniane”, sono di incerta paternità; tutte le altre, fino ad arrivare all’esorbitante numero di 130, sono sicuramente spurie) certissima, però, è una data che ha una grande importanza nella definizione della “poetica” plautina: il 17 dicembre del 217 a. C., giorno e anno della rifondazione e della fissazione, nella forma che avrebbe poi mantenuto per secoli, della festa dei Saturnali, e questo breve intervento tenterà di dimostrare come la collocazione all’interno di questa particolare festività del calendario romano rappresenti la cifra identificativa del teatro plautino.

Scorrendo rapidamente le trame delle commedie, quello plautino appare sostanzialmente come un teatro della ripetizione, del déjà vu: pochi temi prediletti (le peripezie di due amanti, il raggiro perpetrato ai danni di un lenone per sottrargli la ragazza, l’inganno ordito da uno schiavo e da un giovane per strappare denaro ad un padre avaro, il riconoscimento di fanciulle smarrite…) sono in grado di riassumere praticamente tutta la produzione: una produzione che, guardata da questo punto di vista, rischia di apparire persino monotona. Quali sono allora le ragioni di un successo così indiscutibile e singolare? Soprattutto un successo di pubblico, va ricordato, che mancò, per esempio, a Terenzio, ben più impegnato dal punto di vista culturale. Sarebbe piuttosto superficiale e sbrigativo attribuire tale successo alla evidente comicità di alcune situazioni, sarebbe comunque incompleto attribuirlo anche alla felicità dello stile, alla fantasia metrica dei cantica, quasi un condimento raffinato aggiunto ad una pietanza semplice. La questione è che la produzione del déjà vu, come lo abbiamo precedentemente definito, la ripetizione di quanto è già noto al pubblico, in letteratura come in altre forme di comunicazione artistica, ha una sua precisa funzione e, di conseguenza, un suo pubblico. Essa risponde al bisogno della collettività di prendere atto di certi fenomeni presenti nella realtà, collocandoli in un luogo ben definito e ristretto, come è quello della scena teatrale, in modo che siano visibili e, soprattutto, che appaiano gestibili. Prendiamo il contrasto generazionale padri-figli: non era certo un tema secondario in una società come quella romana che conosceva il predominio assoluto dei primi sui secondi; altrettanto si può dire del contrasto padroni-servi, in una società su base schiavistica, in cui il servo doveva funzionare, bene o male, come instrumentum vocale; quanto poi ai giovani amanti divisi da qualche accidente, che lottano per avere la possibilità di esprimere liberamente i propri sentimenti, siamo anche qui di fronte ad un tema generale, anzi, potremmo dire che va al di là del tempo e dello spazio. In quale luce dunque dobbiamo collocare le relazioni che si possono stabilire fra i temi, gli intrecci plautini e i bisogni o le esigenze della collettività che si recava a teatro ad assistere alle commedie? Il buon senso ci deve far escludere, ovviamente, la possibilità che la predilezione, l’aspirazione addirittura, di Plauto fosse quella per una società nella quale davvero i figli si prendono gioco ignobilmente dei padri e i servi scaltri trionfano impunemente su padroni sciocchi e arrendevoli. Assistendo alla messa in scena di una commedia plautina, lo spettatore dell’epoca (esattamente come accade al moderno lettore che ne legga semplicemente il testo) ha la netta sensazione che Plauto non faccia sul serio, che i suoi amanti, i suoi giovani, i suoi vecchi, i suoi schiavi, abbiano qualcosa di enfatico o addirittura di falso, e che i contrasti fra i caratteri siano iperbolici e, proprio per questo, fittizi.

Il rispecchiamento della realtà, che riteniamo sia alla base degli intrecci delle commedie, può anche essere deformazione, anzi lo è sicuramente: lo specchio può rimandare indietro a chi guarda delle immagini deformate, se non completamente rovesciate. Certi momenti della vita sociale richiedono l’inversione, o quanto meno la sospensione dei rapporti sociologici autentici. Il teatro plautino, visto in quest’ottica appare quindi un teatro “carnevalesco”; ricorrendo a questa definizione, dovuta al critico Maurizio Bettini, forse ci avviciniamo al cuore del problema. Analogamente a ciò che accade nella festa del Carnevale, di origine medievale, che tutt’ora sopravvive nella società moderna, nei ludi scenici plautini agiscono delle forze che scompaginano, che invertono, in modo paradossale ma al tempo stesso giocoso, tutti i rapporti sociali. Il codice culturale ne risulta totalmente invertito, emerge una società governata dal principio del ribaltamento, quasi come se l’autore volesse mostrare al suo pubblico cosa accadrebbe se …; se nel mondo i lestofanti avessero la meglio, se gli schiavi comandassero sui loro padroni, se i vecchi venissero oltraggiati dai giovani…

A Roma questo bisogno di sospensione e di rovesciamento, che abbiamo definito “carnevalesco”, si esprimeva soprattutto nella libertas Decembris dei Saturnali, allorché la società rimirava sé stessa in uno specchio deformante.  L’importanza dei Saturnali per la storia del teatro romano sta proprio nel fatto che essi, raccogliendo e unificando non pochi tratti “carnevaleschi” già presenti in varia misura nei riti di altre festività, divennero la festa di tutti per eccellenza, la festa della sospensione del tempo, di una magica irrealtà, in cui semel in anno licet insanire, in cui il copricapo d’obbligo diventava per tutti il pileus, il berretto conico di feltro, altrimenti riservato agli schiavi affrancati; la festa durante la quale a tutti era concesso di mangiare e bere a dismisura, o di giocare a dadi, o di scherzare, in obbedienza ad un “re” di bisboccia, sorteggiato con quegli stessi dadi, nei modi più bizzarri e inconsueti.

In quel giorno la divisione fra liberi e schiavi svaniva e, per una volta, gli schiavi potevano sedere alla tavola dei padroni da pari a pari, tanto da poter dire liberamente tutto ciò che non avrebbero osato dire in nessun altro momento. È appunto questo clima carnevalesco, di sospensione del tempo reale, di ribaltamento delle parti, uno dei tratti dominanti del teatro di Plauto.

Come nel giorno dei Saturnali, sulla scena plautina la signoria della legge appartiene a tutti coloro che sembrano i meno indicati a possederla: i parassiti, ad esempio, cittadini a metà strada fra gli accattoni e i saltimbanchi, in Plauto non fanno che legiferare, riformulando le leggi dello Stato ad esclusivo vantaggio del proprio ventre; oppure gli schiavi, che sentenziano sulla cosa pubblica. Spesso gli atti compiuti da tanti protagonisti delle commedie sono atti di insubordinazione e di sovversiva insurrezione. Se dunque vogliamo collocare il teatro di Plauto entro delle coordinate storico-antropologiche dobbiamo immaginarlo come una effimera, quanto straordinaria, rottura dell’ordine prestabilito. Tale rottura era non solo accettata dal governo della comunità, ma addirittura prevista e incoraggiata; essa, nella dimensione fittizia della rappresentazione scenica, realizzava uno dei bisogni fondamentali della comunità: quello di “fare festa”, di interrompere il flusso monotono della vita quotidiana, sconvolgendone le regole.

Alla fine, naturalmente, i rapporti reali vengono ristabiliti; dopo la “decapitazione”, dopo la destituzione per burla del potere tutto rifluisce negli argini noti: ciascuno torna al suo posto, i figli e i servi vengono perdonati e rientrano al rango di sottomissione, che compete a ciascuna categoria. Ma la pratica del perdono significa anche che tutto quel che si è fatto era in un qualche modo previsto e prevedibile: figli e schiavi plautini, proprio perché infine perdonati sono perdonabili, evidentemente, sin dall’inizio; avevano in qualche modo il diritto di fare quel che hanno fatto. Non è regola solo il ritorno alla normalità, la prassi del perdono mostra che anche la trasgressione può essere considerata regola: la regola burlesca del rovesciamento, quella stessa regola che si fa, nel teatro plautino e, da esso, nel teatro comico dei secoli successivi, struttura dell’intreccio e codice della composizione teatrale.

E veniamo ad un altro degli aspetti più tipici del teatro plautino, al quale si è già fatto cenno: la tendenza a sottolineare apertamente, mettendolo sotto gli occhi dello spettatore, il carattere fittizio e ludico dell’evento teatrale, per poterne trarre, evidentemente, degli effetti comici. In realtà l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere non è quello di far immedesimare lo spettatore con quanto accade sulla scena, abbiamo detto infatti che Plauto non aspira affatto ad una società in cui i rapporti sociali siano invertiti, vuole piuttosto, in modo esplicito svelare, anzi quasi smascherare la finzione teatrale, desidera portare gli spettatori alla consapevolezza di star partecipando, assieme all’autore, ad un gioco, che li diverte entrambi. Per poter ottenere la rottura dell’illusione scenica e condurre gli spettatori a questa consapevolezza, Plauto utilizza una serie di procedimenti riconducibili al cosiddetto “metateatro”, il “teatro nel teatro”, il teatro che parla di sé stesso e che rappresenta sé stesso.

In molti testi di Plauto la commedia “arresta” per qualche momento il flusso del racconto, per parlarci dell’attività creativa del poeta e di quella, altrettanto creativa, dell’allestitore, come se gli artigiani di un laboratorio rivelassero, almeno in parte, i propri segreti al pubblico. Un esempio lo troviamo nello Pseudolus, quando il servo protagonista rivolge al pubblico questa espressione: “Avrei piacere di ritirarmi un momento in casa, il tempo di concentrare nella mia testa gli squadroni dei miei imbrogli. Uscirò senza farvi aspettare. Nel frattempo il flautista qui vi divertirà”; o ancora quando nella scena IV dell’atto I della stessa commedia sempre il servo che dà il nome alla commedia interrompe l’illusione scenica ed esplicita il proprio ruolo di alter-ego, sulla scena, del poeta stesso: “[…] Eccoti solo, Pseudolo. E adesso che farai dopo tante promesse al tuo padroncino? Di pronto cosa c’è? Piani niente, nemmeno l’ombra. Quattrini ancor meno. No, non sai dove sbattere la testa. Non ce l’hai un punto di partenza dal quale cominciare a tessere; non hai un termine sicuro per finir la tela. Ma che cosa fa il poeta? Prende le sue tavolette, cerca quel che non esiste al mondo, e tuttavia lo trova, facendo simile al vero ciò che non è che finzione. Ecco, io sarò il poeta. Quelle venti mine che sulla terra non esistono, io le troverò. Ho promesso di dargliele, da un pezzo, ed è un pezzo che voglio tirare una stoccata al nostro vecchio, ma lui, chissà come, ha fiutato la botta”.

Il teatro plautino, dunque, non è realistico, ma di finzione, fondato su situazioni convenzionali e ripetitive, su personaggi eccessivi e caricaturali e su meccanismi comici altrettanto ripetitivi e, complessivamente, semplici. In questo Plauto appare poco interessato agli intrecci: dà per scontate le trame, che erano ben note al pubblico, spesso cura poco anche la congruenza interna nella struttura delle vicende (nel Miles gloriosus, ad esempio, forse uno dei vertici della produzione plautina, la prima parte è costruita sul tema del doppio e della falsa gemella, nella seconda, invece, il servo Palestrione decide di mettere in atto un nuovo piano, che non ha nulla a che vedere col primo, quasi come se si trattasse di due commedie completamente diverse). Ma questa sorta di noncuranza, di impietosa indifferenza nei confronti delle trame, che pare lederne irrimediabilmente l’organicità, è invece voluta e accuratamente studiata. Plauto, in tal modo, inizia a spezzare l’illusione scenica, l’illusione che, quanto accade sulla scena, sia uno spaccato di vita reale, suggerisce invece che sia una pura finzione, creando il giusto distacco comico dalle vicende e dai personaggi e impedendo, di fatto, il coinvolgimento emotivo e sentimentale dello spettatore, che è, al contrario, continuamente sollecitato a credere che ciò che accade sulla scena sia un semplice ludus, un gioco, a tratti beffardo, di cui è responsabile esclusivamente il poeta e nel quale tutto è inganno, macchinazione, dolus, esagerazione, iperbole, eccesso.

Una tale operazione presuppone un rapporto particolare col pubblico, che viene continuamente chiamato a partecipare a quello che accade sulla scena, con un atteggiamento di divertita complicità. Fin dal prologo, il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e del gioco di finzione, una sorta di personaggio fisso con il quale i protagonisti della fabula dialogano ripetutamente, in un continuo gioco di effetti illusionistici e di travasi tra finzione e realtà.

Gli accorgimenti tecnici ai quali Plauto fa ricorso per stabilire tale immaginoso e trascinante rapporto col pubblico sono diversi: il più frequente è quello dei cosiddetti “a parte”, già utilizzati nelle embrionali forme teatrali precedenti, ma che Plauto rende molto vivaci e fantasiosi.

Il coinvolgimento del pubblico può essere ancora più diretto come, per esempio, l’irruzione in scena di un anti-personaggio (o un non-personaggio), come accade nel Curculio, dove, all’inizio del IV atto, entra in scena l’impresario dello spettacolo, preoccupato per gli abiti che un personaggio ha appena prestato ad un altro. Sono scelte strutturali e soluzioni sceniche del genere che fanno parlare a buon diritto di “metateatro”: Plauto, in straordinario anticipo sui tempi, fa riflettere il teatro su sé stesso, esplicita i meccanismi compositivi messi in atto dall’autore, svela i segreti e i retroscena della commedia. In una sola espressione, mostra al teatro come rappresentare sé stesso.

Claudia Romano

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